La Federazione Il Jazz Italiano ha intervistato il musicista, docente e uno dei tre direttori artistici della edizione 2024 de Il jazz italiano per le terre del sisma Francesco Diodati. Compositore e improvvisatore, instancabile ricercatore, negli anni ha sviluppato uno stile poliedrico e porta avanti una esplorazione musicale incessante. È parte dei gruppi Oliphantre (Martial – Tamborrino), MAT (Allulli – Baron), tell kujira (Calderano – Michelangeli – Guerri), weave4 (Bigoni – Delbecq – Argüelles), Nimituare (Giulia Cianca, Marta Frigo, Chiara Chistè), Julian Pontvianne Abhra e del duo con Jabier Moreno Sanchez. Collabora stabilmente con Enrico Rava, Paolo Fresu Glauco Venier, Israel Varela e ha inciso più di 40 album per etichette quali ECM, Auand, Tukmusic, PDM, Onze Heures Honze. Nel corso degli anni ha condiviso la musica con realtà molto diverse, rielaborandole successivamente in una visione della musica del tutto personale: dal 2011 al 2016 dell’ambizioso progetto internazionale Myanmarmeetseurope. Con il collettivo In every encounter insieme ad Ermanno Baron e ai danzatori Roberta Racis e Leon Maric, ha partecipato a residenze per Novara jazz, Fabbrica Europa, Opera estate e Marche teatro, elaborando una performance che unisce musica e corpi. È attivo in ambito multidisciplinare e collabora stabilmente con la compagnia Puro Teatro in qualità autore e esecutore di musiche originali, approfondendo il rapporto tra musica e parola. Suona frequentemente nei più importanti festival, teatri, e club di tutto il mondo. Affianca alla sua attività concertistica quella di didatta presso il conservatorio Casella del L’Aquila (chitarra jazz) e presso Siena Jazz University (laboratori di ricerca) e in forma di masterclass (siena summer festival, panama jazz festival, gubbio no borders, correggio ontime, casa del jazz).

Come hai reagito quando ti hanno nominato direttore artistico de Il jazz italiano per le terre del sisma 2024 insieme a Ugo Viola e a Gabriele Mitelli?
Con sorpresa e un po’ di spavento, non avendo esperienza come direttore artistico ed essendo una prima volta. Dopo qualche giorno di riflessione ho pensato che potesse essere una bella opportunità di proporre alcune idee che rispecchiassero la mia visione della musica, che ben si sposa e completa con quella di Gabriele e Ugo, con i quali c’è stata da subito sintonia e complicità. È anche una – bella – responsabilità ricca di complessità: le scelte artistiche sono dettate dall’idea generale e dall’immagine che si vuole restituire, dai rapporti con le istituzioni in loco, dalla relazione fra tipologia degli spazi a disposizione e i gruppi coinvolti e sono limitate per questioni logistiche ed economiche; inoltre si cerca ogni anno di dare spazio a gruppi diversi. Una sfida non indifferente.

Senza svelare troppo, quali sono le parole chiave di questa decima edizione?
Inclusività, spazio – inteso come luogo da vivere, incontro. Un luogo è fatto dalle persone e dai suoni che lo abitano e questo è stato il punto di partenza per immaginare questa edizione.
Un’altra questione per me – e per Ugo e Gabriele – importante e divertente è stata quella di fare una piccola ricerca, al di là di chi già conoscevamo, per scovare musicisti e musiciste che ci rapissero per il loro suono e visione artistica e che fossero – ancora – poco conosciuti e che non fossero mai stati invitati al festival.
Una novità a cui tengo molto sono gli incontri estemporanei: un’occasione per vedere all’opera musicisti scelti da noi fra i vari gruppi che improvviseranno un set di musica unico per questa edizione del festival.
Infine abbiamo ideato alcune attività multidisciplinari e performative che si svolgeranno presso il MAXI e nelle strade della città e che saranno incentrate proprio sulle persone e i luoghi di questo territorio.

Sei docente di chitarra jazz presso il Conservatorio dell’Aquila: da romano come ti stai rapportando con il territorio aquilano?
Ho una lunga storia personale con il territorio aquilano, avendolo frequentato per oltre 30 anni come luogo di villeggiatura – la mia famiglia ha una casa nelle vicinanze. Amo le persone e i luoghi dell’Abruzzo e in questi anni sto scoprendo in modo ancora più profondo L’Aquila. Ho conosciuto alcune piccole realtà molto vive e attive sul territorio, ad esempio la libreria Polarville: Luna e Giuliano sono due persone appassionate ed entusiaste con le quali, con la complicità di un musicista a cui sono profondamente legato artisticamente, Stefano Calderano, abbiamo ideato una piccola rassegna indipendente di soli, Sonic Collision, associata alle esperienze collaterali del conservatorio Casella dove oltre ad insegnare chitarra svolgo attività di ricerca laboratoriale sul jazz e sull’improvvisazione, grazie a un direttore aperto e sensibile, Claudio di Massimantonio. Gli studenti sono molto ricettivi e sensibili e si sta creando un bello scambio.
È anche nata una bella sinergia con il dipartimento di elettronica presso il conservatorio e stiamo provando a scombinare un po’ le carte e a dare una visione a campo più ampio (rispetto ai rispettivi indirizzi) di quello che si può fare con la musica, sottolineando l’importanza degli incontri come occasioni uniche di scambio, crescita, arricchimento, e unendo diversi linguaggi, con il coinvolgimento esterno di tellKujira (composto da Ambra Chiara Michelangeli, Stefano Calderano, Francesco Guerri e il sottoscritto) e di Marco Fiorini per la parte elettronica.

Hai viaggiato e viaggi molto condividendo la tua musica e le tue esperienze: confrontando le diverse realtà, quali miglioramenti ti aspetti dal panorama jazz italiano?
Sicuramente ho dei desideri di cui spero qualcuno si farà carico – già alcuni lo fanno, troppi pochi per quanto mi riguarda. Mi piacerebbe vedere più promoter e direttori artistici curiosi verso la musica creativa, che si prende i rischi, che muove e smuove ed è foriera di incontri e di occasioni di scambio. Questo vuol dire ascoltare, lasciar sedimentare, appassionarsi, ideare i festival in modo creativo e darsi il tempo di ascoltare e scovare la musica che c’è in Italia. Tutto ciò tuttavia non basta: oltre la curiosità ci vuole l’amore e la capacità di saper coltivare e proporre un certo modo di fare musica e di conseguenza la volontà di dare ai musicisti tutte le risorse e i mezzi necessari per far andare al meglio le cose. Chi ha le risorse per promuovere la musica – e a maggior ragione chi ha risorse che attingono a soldi pubblici – dovrebbe farsi carico, a mio avviso, non solo di ascoltare i gruppi che ancora non conosce, ma anche di proporla adeguatamente, di creare un proprio pubblico, di far conoscere tanta musica diversa e di darne risonanza, altrimenti si rischia di ridurre la promozione e la diffusione della musica che è fuori da schemi più usuali a una specie di bizzarro assistenzialismo.
C’è la paura di un flop? Si possono fare le aperture di concerti che richiamano di più l’attenzione – e che siano coerenti con il gruppo da affiancare – e far conoscere ad un pubblico più numeroso i gruppi meno conosciuti.
Io credo fermamente che tanta musica di oggi possa arrivare a un pubblico vasto se proposta nei modi e luoghi adeguati. Di certo ci vuole molta più immaginazione e lavoro rispetto all’organizzazione di un concerto di un nome blasonato, ma alla lunga credo che ripaghi: in fondo come si crea un pubblico affezionato, che si fida del direttore artistico e che scopre insieme allo stesso organizzatore un’artista nuovo, una musica nuova?
Questo vuol dire pensare alla musica non solo come intrattenimento ma come momento unico e speciale, oltre a mettersi in relazione con il proprio pubblico. Un’urgenza espressiva condivisa, che racchiuda in sé l’idea di “cambiamento”.
In questo senso credo anche che parte dei fondi pubblici dovrebbero andare direttamente ai musicisti, ovvero ai protagonisti, per permettere loro di investirli nei modi più opportuni rispetto alle loro esigenze e urgenze artistiche, come succede in altri Paesi europei.

Perché hai scelto la musica jazz?
Non l’ho scelta, mi ci sono ritrovato perché è da sempre la musica del cambiamento, del movimento. Per questo amo e approfondisco Charlie Parker quanto Ornette Coleman, John Coltrane, Booker Little o Cecil Taylor, senza parlare dei più contemporanei come Steve Coleman, Craig Taborn, Benoît Delbecq, e potrei continuare molto a lungo questa lista che va ben oltre quello che si etichetta come jazz, ovvero come viene inteso classicamente – o commercialmente. Per me è la musica degli incontri e degli scambi, che si basa sul rapporto, una musica sempre viva che racchiude in sé lo spirito del folklore e la sofisticazione più generosa. Per questo è sempre attuale.

Cosa ispira la tua ricerca musicale?
Tutto quello che mi circonda, in fondo basta cercare l’immagine che non si vede: nei film, nei libri, nelle perfomance, nella natura, nelle persone. C è sempre un significato, un senso più profondo che a me piace traslare in musica.
In generale mi piace la possibilità di spostare sempre più in avanti l’asticella del rischio e di quella dose di sana incertezza quando suono.
Di fatto tutti i gruppi e gli incontri che cerco rispecchiano la volontà di confrontarmi con musicisti che mi stimolino in questo senso e che siano disposti ad andare sempre un po’ più oltre sé stessi. Per me significa approfondire, studiare e ricercare in molte direzioni diverse, sia da soli che in gruppo, rendere sempre più solide le proprie capacità musicali per poterle mettere in gioco ed in crisi ogni volta in modo diverso.
In fondo suonare è una ricerca su me stesso; non è facile né scontato, non è un percorso lineare e per questo credo che si avvicini molto all’essere umano nel senso più profondo e bello, pur con tutte le contraddizioni e le difficoltà.

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